"CAVOUR"

UNA NAVE POCO FORTUNATA

 di Aldo Cherini

Prendeva il mare nel 1913, facendosi vedere per la prima volta, una grossa nave grigia di quelle “da guerra” che esibiva una linea architettonica inconsueta. Sembrava una costruzione frettolosa e alquanto trascurata con uno scafo quasi privo di sovrastrutture oltre quattro sgraziate ciminiere disposte affiancate due a due, e a livello della coperta quattro torri trinate con cannoni da 305 mm. Portava nientemeno che il nome di “Dante Alighieri”, che era più adatto ad una scuola media che ad una nave del genere. I bene informati dicevano che si trattava di una “dreadnought”, termine impronunciabile mai sentito in nessuna parte della Penisola né altrove se non in Inghilterra dove, appunto, era entrata in servizio da poco tempo la HMSDreadnought” che significava “Senza Paura”e che aveva la ventura di aprire tutta una serie di nuove costruzioni che le principali nazioni marinare non tardavano a mettere in linea senza badare a spese, tant’era l’interesse incontrato dal nuovo tipo che surclassava le vecchie corazzate.

La corazzata Cavour in navigazione

Era evidente che si trattava di qualcosa di nuovo che riguardava in primo luogo l’armamento ma non l’idea, il concetto, già preconizzato da un nostro ufficiale del genio navale, Vittorio Cuniberti , ed erano stati gli inglesi ad afferrare subito le implicazioni e a trasferirle sullo scalo di un cantiere.

L’Italia non era rimasta comunque a guardare e tra il 1910 e il 1914-15 prendevano il mare 5 di queste navi che i più continuavano a chiamare corazzate, per tacer di una successiva classe “Caracciolo” non realizzata.


Una di queste navi, catalogata come nave da battaglia di I.a classe, è stata la “Conte di Cavour”, che entrava in servizio il primo aprile 1915 e passava indenne e senza storia attraverso le maglie della prima grande guerra. Nell’agosto del 1923, all’epoca della crisi delle relazioni diplomatiche dell’Italia con la Grecia, troviamo l’unità nelle acque di Corfù con a bordo un Gruppo di Artiglieria someggiata pronta allo sbarco, fortunatamente non necessario, con il seguito negli anni 20 di periodi passati ad equipaggio ridotto, di viaggi all’estero per “mostrare la bandiera” ma anche di ristrutturazioni come il cambio dell’albero anteriore tripode con un quadripode a sostegno di una centrale telemetrica più alta che ne modificava la silouette. Molto impegnativo e lungo il periodo trascorso ai lavori presso il Cantiere Navale San Marco di Trieste, durati dall’ottobre del 1933 al maggio del 1937, per una riqualificazione completa che trasformava la “Cavour” in una nave quasi del tutto nuova. Riprendeva il servizio il primo giugno 1937 acquistando molta importanza in un periodo politico internazionale fattosi critico che sarebbe sfociato presto nella seconda guerra mondiale. Il che accadeva effettivamente nell’estate del 1940 dopo un periodo di non belligeranza con le note conseguenze. Seguiva a Punta Stilo, il 9 luglio 1940, il primo scontro navale tra le grandi navi italiane e inglesi del quale rimane una nutrita documentazione cinematografica che mostra in azione anche la “Cavour” con le sue bordate (vedansi le sequenze passate nel film “La nave bianca” girato nel 1941 dal regista Roberto Rossellini con la supervisione dell’ufficiale di marina Francesco De Robertis). Si attaglia la dizione della poca fortuna attribuita all’unità quando nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940, la notte disgraziata di Taranto con l’attacco degli aerosiluranti inglesi, la “Cavour” veniva colpita gravemente tanto da dover ricorrere all’arenamento per evitare un affondamento in acque profonde. L’attacco inglese, predisposto con una preparazione e modalità assai accurate quando  non esistevano ancora precedenti del genere, segnava l’inizio dell’impiego degli aerosiluranti come arma temibile richiamando l’attenzione dei giapponesi  nella predisposizione del loro attacco a Pearl Harbour.

Cavour: trasferimento al Cantiere Navale San Marco

Rimessa a galla il 22 dicembre successivo dopo sbarcati i grandi pesi dell’armamento e della centrale telemetrica del torrione, la “Cavour” veniva trasferita al Cantiere Navale San Marco di Trieste per un nuovo ripristino con particolare riguardo alla difesa contraerea.

I lavori andavano a rilento a causa delle crescenti difficoltà conseguenti come si sa allo stato di guerra tanto che l’8 settembre 1943 non era ancora in grado di prendere il mare. L’equipaggio militare veniva sbarcato la sera del 10 settembre e il giorno dopo la nave cadeva in mano tedesca che però la lasciava in uno stato di quasi completo abbandono perché inutilizzabile, spostandola solamente dalla banchina di allestimento da lasciar libera per altri lavori.

La zona entrava nel raggio d’azione dell’aviazione anglo-americana e fu così che la “Cavour” durante un bombardamento fu fatta segno al lancio di bombe due delle quali raggiungevano il bersaglio. Non è che il danno provocato sia stato molto grave ma si apriva per sconnessione di alcune lamiere della carena una via d’acqua che provocava l’abbassamento del bordo libero della fiancata fino agli oblò e boccaporti che nessuno aveva chiuso. Il grande scafo sbandava tanto, come succede in casi del genere, da ruotare completamente portando la carena in vista mentre le sovrastrutture (torri, torrione, ciminiere, tripode) finivano a rovescio nel fango del bassofondo. Era il 20 febbraio del 1945. 

 

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Relitto della Cavour nel vallone di Muggia

Lo specchio d’acqua del vallone di Muggia, finita la guerra, appariva seminato di relitti tra i quali emergevano sbandati sul bassofondo i transatlantici “Sabaudia”, “Giulio Cesare” e “Duilio”, lo scafo della corvetta “Berenice” affondata il 9 settembre del 1943 colpita dai tedeschi e vi si specchiavano le rovine degli stabilimenti rivieraschi. Non lungi, tra Capodistria ed Isola, mostrava la carena l’enorme scafo del transatlantico “Rex”, nave ammiraglia della marina mercantile.

I lavori di sgombero e di ripristino risentivano delle difficoltà determinate dai contrasti politici riguardanti la sistemazione del territorio di Trieste ma finalmente arrivava la volta del relitto della “Cavour” che veniva posto in vendita all’asta dal Ministero della Guerra. Vinceva l’imprenditore Armando Vasi di La Spezia ma si trattava di un affare tutt’altro che semplice con un solo precedente, quello della corazzata “Leonardo da Vinci” affondata a Taranto nel lontano 1916 e riportata a galla nel 1919. Un impegno di eccezione che richiedeva anche uomini di eccezione, quali il noto Donato Sodini, famoso per l’impresa di ricupero dell’oro trasportato dal piroscafo “Egypt”, affondato in un alto fondale difficile da raggiungere. Sodini considerò la “Cavour” come una sfida, ed accettò l’incarico. Arrivava a Trieste con la goletta “Nazario Sauro” ed una ventina di uomini di sua fiducia assumendo altrettanti specialisti sul posto.

Recupero della corazzata Cavour

Il lavoro iniziava l’8 dicembre 1950. Esiste un buon servizio giornalistico firmato da Giorgio Gori che seguiremo alla lettera. Bisognava prima di tutto esaminare la situazione, controllare la giacitura della nave e prendere visione dello stato in cui veniva a trovarsi. Bisognava poi decidere, dopo reso galleggiante il relitto come stava con la carena in alto, se conveniva raddrizzarlo come avvenuto a Taranto con la “Leonardo da Vinci” oppure no. Il basso fondale di 12 – 14 metri non si prestava alla impegnativa manovra e pertanto la direttiva impartita agli uomini riguardava l’immissione di aria compressa. Per impedire la fuoriuscita dell’aria pompata si procedeva alla chiusura di tutti i portelli, oblò ed aperture di fiancata. Lavoro lungo e attento da compiere perfettamente. Per assicurare la stabilità di assetto, venivano affiancati otto cassoni cilindrici di spinta della capacità ciascuno di 140 tonnellate, manovrabili con valvole che consentivano l’ingresso dell’acqua e l’espulsione con l’aria compressa. I cavi di ritenuta erano sistemati in modo da concorrere all’innalzamento del relitto, un lavoro molto delicato che avrebbe potuto costare caro ad uno dei palombari, un incidente risoltosi fortunatamente, l’unico verificatosi in tutto il periodo di quei pericolosi lavori.

Sulla parte emergente della carena venivano saldate otto garitte stagne per l’accesso nell’interno della nave grazie alla manovra di due portelli ad apertura alternata che consentivano il mantenimento dell’aria compressa a 1,5 atmosfere fornita da compressori sistemati sul posto. Valutato il fatto che anche a relitto riportato a galla le sovrastrutture avrebbero toccato ancora il fondale marino impedendo ogni movimento, veniva deciso di procedere al loro taglio e di lasciarle per il momento sul luogo dell’affondamento. Quattro garitte si trovavano in corrispondenza dei quattro pozzi delle torri dei cannoni di grosso calibro, cilindri del diametro di 14 metri correnti verticalmente dal triplo fondo della carena alla coperta allineati per chiglia. Resi stagni sigillando tutte le aperture di servizio, tutte le possibili vie d’acqua anche minime come quelle dei cavi elettrici e telefonici, avrebbero aiutato la spinta al galleggiamento, ma rimaneva sempre agganciato il peso di 700 – 800 tonnellate d’acciaio delle corazze di protezione delle casamatte che raggiungevano i 300 mm di spessore. Bisognava tagliare, non c’era via di scampo. Lavoro molto pericoloso che, a salvaguardia dell’incolumità degli addetti, richiedeva un particolare sistema operativo manovrato a distanza. La “Cavour” veniva alleggerita di circa 3000 tonnellate liberandosi non poco dalla presa del fondale.

Il pompaggio dell’aria proseguiva ininterrottamente abbassando il livello dell’acqua interna, gli operai lavoravano indefessamente in superaffaticamento  preparando quattro grandi locali a prua, poppa e lungo le due fiancate. Uomini, detti nel linguaggio di mestiere “campanari”, muniti di perfetta idoneità e resistenza fisica, in ambiente reso infido dal fango e dai residui di nafta, con una temperatura surriscaldata tanto alta da richiedere il raffreddamento delle lamiere con getti d’acqua sulla carena.

Pian piano la forza di sollevamento che nessun pontone poteva fornire veniva ora a crescere nell’interno della nave, tanto da permettere ai palombari di farsi sotto la coperta e procedere al taglio ossi-propanico di tutte le soprastrutture ancora esistenti. Un lavoro richiedente anch’esso molta perizia, che teneva occupati sei uomini per complessive 9.600 ore. Ma fu l’ultimo. La pressione dell’aria pompata con circospezione finiva per liberare dall’acqua i vari compartimenti stagni e finalmente la “Cavour” si staccava dal fondale, saliva e la carena arrivava ad emergere fino ad un massimo di 9 metri sopra il pelo dell’acqua. Erano le ore 13,36 del 29 marzo 1952. Rimanevano sotto nel fango i cannoni, che avevano tuonato a Punta Stilo, ad altre parti delle sovrastrutture, che forse ci sono ancora.

Il relitto veniva rimorchiato tra Punta Sottile e Punta Olmo e lasciato su di un basso fondale a disposizione dei demolitori che non si facevano attendere.

Resta la memoria di una nave rappresentativa nella storia marinara e di una impresa degna di essere additata quale esempio di straordinaria capacità, impegno e valore.

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