Navis Turrita, bireme. Coll. Torlonia, Roma


Le navi romane

 

Tutti sanno che la potenza dell’antica Roma si basava sulle legioni, i bene armati e organizzati reparti militari di terra, vale a dire che Roma era una potenza terrestre. Ma ciò è vero solo in parte o, forse, è vero il contrario. Il grande numero di relitti di navi che giacciono sommersi lungo le rive del Mediterraneo e la consistente documentazione artistica e simbolica tramandata in tema navale stanno ad indicare che la marineria ha costituito la forza portante di un sistema statale, economico, sociale, organizzativo, operativo che non trova riscontro se non in epoche a noi più vicine, senza dimenticare il fatto che i trasporti di massa non potevano eseguirsi se non per via di mare. Basti citare il grano per l’alimentazione della grande massa degli abitanti della città di Roma grazie alle linee marittime della Sicilia e dell’Egitto e quanto arrivava dalla Spagna.

 

I relitti di navi grandi e piccole giacenti in mare erano raggiungibili, un tempo, molto difficilmente. Il più delle volte non rimaneva di essi che resti non bene identificabili oppure solamente il carico trasportato, che era arrivato all’imbarco per lo più in anfore con funzione di contenitori generici non solo per i liquidi ma anche per determinate derrate alimentari. Nelle operazioni di imbarco e sbarco succedeva che questi contenitori finivano per rompersi come accaduto nel porto della città di Roma, sistemato in un’ansa del Tevere, dove i cocci dovevano essere portati e lasciati in un posto sul quale col passare degli anni, anzi dei secoli, venne a formarsi una collina che ha preso il nome di Testaccio, nome derivante dal latino e significante coccio rotto.

Il discorso non è semplice, il panorama si allarga e attorno alla nave viene a formarsi tutto un mondo particolare: il cantiere di costruzione, l’equipaggio e il suo mantenimento, il porto e i connessi servizi, le case di spedizione e le assicurazioni, vari servizi a terra. E poi, alzate le vele, la rotta a volte poco nota da seguire, i pericoli inevitabili, i pirati, il maltempo tanto che nella stagione invernale venivano sospesi i contratti di assicurazione. Conviene a questo punto ricordare il tratto navigabile detto dei Sette Mari tra Classe (Ravenna) e Grado avanporto di Aquileia raggiungibile con un canale: una serie ininterrotta e ben riparata di lagune percorse attivamente anche d’inverno da navi onerarie minori.

Lo stato interveniva con rilevanti opere pubbliche ed ecco il grande porto con i capienti e riparati bacini degli imperatori Claudio e Traiano tutt’ora rintracciabili nell’area marittima di Ostia Antica, centro nevralgico della marina mercantile mentre la marina militare aveva la base a Formia e a Ravenna (ancor oggi ricordata dalla località Classe, dove classe significa flotta) con il console Caio Duilio, il creatore della potenza navale con la tattica dell’arrembaggio che aveva assicurato la prevalenza romana sulle flotte cartaginesi.

Nave mercantile e nave militare, un binomio ben differenziato, che aveva giocato un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità fino all’avvento dell’aeronautica.

Scarsi e incompleti i ritrovamenti di navi o di parte di esse mentre molto numerose sono le raffigurazioni su bassorilievi, dipinti, mosaici, medaglie, monete, graffiti, modellini fittili votivi, un complesso figurativo molto ricco ma per lo più simbolico che non aiuta nell’introspezione della tecnica costruttiva. Al quale vanno aggiunti i versi dei poeti Ovidio, Accio, Orazio, Ausonio, Virgilio, Catullo, Giovenale, Marziale, Persio, Properzio, Tibullo.

Fortunatamente viene in soccorso il lago di Nemi con lo scrigno delle sue due navi rimasto custodito nei secoli fino al 1900 avanzato che vide le navi tornare alla luce del sole per perire poco tempo dopo, durante la guerra, distrutte dal fuoco ma non senza aver svelato prima i segreti costruttivi.

La prima nave di Nemi emersa nel 1928L’esistenza di due grandi scafi giacenti sul fondale non lontano dalla riva era cosa nota da sempre perché si potevano vedere in trasparenza sotto l’acqua, l’uno tra i 5 e i 10 m. circa, l’altro tra i 15 e i 20 m. Non molto per il primo e abbastanza per il secondo in rapporto ai tempi antichi tanto che nessuno riuscì a fare nulla di positivo se non danni. Non l’architetto Leon Battista Alberti, incaricato dal cardinale Prospero Colonna (1446-47), né il bolognese Francesco De Marchi (1535), né Annesio Fusconi (1827) sceso sul posto con una campana pneumatica finché verso la fine del 1800 arrivava il palombaro. Non si era andato fino allora oltre il ricupero di oggetti d’arte facenti parte del ricco arredamento delle due navi evidentemente lusorie.

Interveniva finalmente lo stato e il colonnello del Genio Navale Vittorio Malfatti veniva incaricato nel 1896 di prendere in esame la situazione previo accertamento di ogni dato riguardante i due scafi nella loro reale situazione e natura, posizionamento e possibilità di ricupero. Il col. Malfatti indicava il solo modo possibile che consisteva in un abbassamento adeguato del livello dell’acqua lacustre. Riconosciuta la validità dell’indicazione, si dava mano a complessi lavori di esecuzione grazie alla collaborazione di vari enti e organismi civili e militari, servizi e industrie giungendo così al 1927 quando, con l’abbassamento del pelo dell’acqua per 11,28 metri, compariva la prima nave in tutta la sua lunghezza di 71,25 metri e larghezza di 20 metri. Ripreso il lavoro delle idrovore, nel 1929 compariva anche la seconda nave (lunga 73 metri e larga 24 metri), che la Marina Militare si prestava ad alare e trasportare nel museo eretto in vista del lago concludendo nel 1932 una grandiosa e impegnativa opera che non aveva e tutt’ora non ha precedenti.

modello in scala 1:5 del relitto recuperato nel 1928

Ma non basta, una cieca avversa sorte ha voluto che un furioso incendio sviluppatosi nella notte tra il 31 maggio e il 1 giugno 1944 distruggesse tutto mandando in fumo la più importante documentazione della tecnica navale romana: due navi, un battello minore di 10 metri e due canoe monossili. Si ripiegava a guerra finita su due fedeli modelli in scala 1:5 (lunghi 15 metri e larghi 6) eseguiti nello stabilimento di Castellamare di Stabbia a cura della Marina Militare che provvedeva anche al loro trasporto nel museo riedificato, che comprende ora una sezione utile alla conoscenza della tecnica navale e delle organizzazioni marinare romane.

Era finalmente dato di vedere con i propri occhi e toccare con mano com’era strutturata la carena, in legno di quercia, pino e abete, piatta e con cinque chiglie per sopportare i forti carichi di costruzioni fittili e litiche alzate in muratura sull’ampia coperta pavimentata di mosaico e pietre dure. Il fasciame era congiunto accuratamente a paro col sistema del tenone e mortasa, ad incastro e caviglie. Le chiodature sulle ordinate venivano eseguite con lunghi chiodi piegati e ripiegati in tre sensi. Per evitare l’ossidazione, i chiodi venivano battuti non nel legno del fasciame ma su di una specie di tappo di legno dolce che chiudeva il foro più largo predisposto per ricevere il chiodo stesso. Molto curato e singolare il metodo per garantire l’impermeabilità dello scafo, non con la comune calafatura, ma con l’applicazione di stoppa su tutte le tavole spalmate di minio di ferro. Sulla superficie così preparata si stendeva un tessuto di lana imbevuto di sostanze impermeabili e sopra il tutto fogli di piombo fissati con una fittissima serie di piccoli chiodi di rame a testa larga, coronata di punte interne. Interessante anche la strutturazione della prua con predisposizione di elementi metallici. Elevata la quantità di reperti di vario genere raccolti sui relitti e nelle vicinanze, non pochi di elevato valore artistico.ricostruzione grafica di sezione trasversale con 5 chiglie in vista

Buona la tecnica navale applicata, superiore ad ogni aspettativa sia nei materiali impiegati che nella esecuzione, tale da fare piazza pulita di ogni fantasia e ingenuità che fino allora avevano dominato, come ad esempio l’imponente sceneggiatura del film “Scipione l’Africano” di prima della guerra, la ricostruzione francese della trireme voluta da Napoleone III°, che varata stentava a muoversi, e la veduta del tutto inventata di una delle navi nemiensi. Le due navi di Nemi non potevano con tutta evidenza servire per alcuna navigazione lacustre, erano si può dire delle grandi piattaforme galleggianti costruite però secondo perfetta tecnica navale in tutto e per tutto in fatto di scelta e trattamento del legno, razionalità e ingegnosità dei giunti e degli incastri, della calafatura e impermealizzazione, delle leghe metalliche, della stabilità. Anche per quanto riguarda la velatura, non mancava la conoscenza e la pratica delle andature di bolina per la risalita del vento con vele quadre a geometria variabile ottenuta mediante il sollevamento di un angolo inferiore per mezzo di un cavo scorrente in anelli posizionati opportunamente con una manovra detta “pedem facere”. Primo passo verso la vela triangolare detta latina (“alla trina”).

Nota anche la navigazione con vela a tarchia alzata sulle imbarcazioni minori, praticata specialmente nell’Egeo.

L’ancora è da sempre uno dei più importanti attrezzi mobili di una nave, come tale riconosciuta fin dall’antichità e fatta oggetto di particolari cure da parte di personale qualificato sia nella costruzione che nella positura e nell’impiego. Soggetta quindi a notevoli sviluppi tecnologici che partendo da una semplice pietra legata ad una cima è arrivata al prodotto di alta specializzazione dei tempi moderni. La cantieristica romana ha prestato molta attenzione all’ancora con notevoli realizzazioni che vanno dall’impiego del legno zavorrato da una o due pesanti strutture di piombo oppure in tutto metallo di leghe di ferro. Non mancano le ancore tra i reperti di Nemi, una delle quali lignea con fuso di 5,5 metri ed una di ferro inguainata di legno con il ceppo mobile, simile ad altra ancora trovata in precedenza nel lido di Pompei, fatto questo interessante perché dimostra che il ceppo mobile (detto nel 1800 di tipo “ammiragliato”) è d’uso corrente fin da epoca romana. 

Navis longa della Colonna TraianaUn indice di conoscenze e di perizia insospettate che fanno guardare con occhio nuovo le figurazioni antiche: la Colonna Traiana, la Collezione Torlonia, gli affreschi di Pompei, il mosaico Barberini, il bassorilievo di Preneste, i mosaici tunisini di Sus, due bassorilievi rappresentanti un convoglio mercantile e uno scontro navale, i mosaici delle corporazioni navali di Ostia Antica, la monetazione, con l’aggiunta di un notevole gruppo di graffiti non certo opere d’arte ma comunque documenti interessanti. 

Non è da credere però che il tutto sia stato opera dell’ingegno romano, che non disdegnava quanto di conveniente poteva trovarsi realizzato dalle popolazioni in questa o quella parte del vasti dominii, greci, fenici, cartaginesi ed altri, col merito di avere ottimizzato e ingegnosamente impiegato quanto riguardava l’arte nautica. Vedasi la “liburna”, la celere e manovriera nave di origine dalmata, presente nella base di Classe. Gli stessi equipaggi non erano omogenei, per lo più greci e levantini e a bordo si parlava più di una lingua. Gente che non godeva di uno stato sociale, detenuto ad esempio perfino dai contadini, e che viveva in un proprio ambiente al margine della società come è avvenuto anche successivamente tra le popolazioni rivierasche.

Ben poco si può sapere della consistenza della flotta, della sua evoluzione ed organizzazione amministrativa e operativa, delle compagnie portuali, delle agenzie commerciali marittime che erano almeno 70 solo ad Ostia. Esistevano quattro “quaestores classis” (paragonabili alla funzione delle capitanerie di porto?), un “quaestor ostiensis” competente nell’importante ramo dei rifornimenti annonari. Ma non poco si può dedurre dallo sviluppo dei lavori pubblici interessanti l’ubicazione e lo sviluppo portuale. Inizialmente le rotte marittime convergevano a Pozzuoli a 250 chilometri di distanza dalla foce del Tevere dove esisteva solamente uno scalo e una stazione di navi militari forse con compito di polizia marittima. Verso la metà del primo secolo a.C. emergeva la necessità di un porto grande e funzionale non lontano da Roma. Se ne interessava l’imperatore Augusto ma si deve all’imperatore Claudio la realizzazione di un grande ed attrezzato bacino di forma ovoidale munito di un faro, collegato col Tevere mediante due canali. Opera completata da Nerone nel 60 d.C. col nome di Portus Augusti Ostiensis o semplicemente Portus. Struttura forse troppo aperta tanto che due anni dopo un violento fortunale affondava o danneggiava 200 navi. Il problema veniva risolto dall’imperatore Traiano con un’opera imponente che comprendeva un bacino esagonale con fondale di 5 metri, banchina di 2000 metri, magazzini a due piani, edifici per l’amministrazione e la sorveglianza, moli e un canale di accesso di 500 metri con a lato una darsena per i traghetti e le barche da rimorchio, il tutto inaugurato nel 112-13 d.C. col nome Portus Augusti et Traiani (vedi disegni qui). Attraccavano qui le navi maggiori, le frumentarie, lunghe generalmente 30 metri con portata di 280 tonnellate, un po’ troppo per la loro struttura alquanto debole, lente e difficili da governare, con vele non bene rispondenti alla loro funzione tanto da cedere il passo ad altre unità. Il fatto di una nave più grande delle altre impressionava chi stava a terra come avviene oggi ed esiste un testo letterario dello scrittore greco Luciano di Samosata (II° sec. d.C.), che pende con stupore dalle labbra di un navarca che descrive come una meraviglia una di queste navi lunga 55 metri e con un’antenna impressionante. Non era certamente la sola ed era rimasta nota quella nave che aveva portato a Roma dall’Egitto, adagiato su di un letto di grano, il grande obelisco ora in Piazza San Pietro. Pietro d’Alessandria, appunto il santo, che ha lasciato una vivida memoria riguardante un suo viaggio per mare dai Dardanelli asiatici alla Sirte africana (27 d.C.), dove la nave che imbarcava 276 persone naufragava buttata in costa da una tempesta descrivendo con precisione tutto quello che era capitato.

Cala Rossa - Favignana - Naves honerariae
Naves honerariae

 

Nulla è pervenuto per quanto riguarda la struttura delle navi militari maggiori, tipica la trireme per tacer della quinquereme, delle quali si trova notizia nella letteratura coeva. Navi che si possono ritenere derivanti dalla triera ateniese, della quale esiste una notevole documentazione archeologica e storica tale tuttavia da non chiarire l’impianto strutturale essenziale destinato al remeggio. Esiste un solo frammento in bassorilievo marmoreo (Lenomant, 1859) rappresentante la parte centrale dello scafo col triplice palamento abbastanza dettagliato ma non decifrabile chiaramente e fonte di interpretazioni discordi. Da ricordare il convegno internazionale tenuto a Roma nel 1989 sulle poliremi dell’antichità al quale hanno partecipato eminenti studiosi ed esperti con l’apporto di dati e analisi archeologiche, epigrafiche, letterarie, statistiche, interpretative. La marina militare greca aveva finanziato nel 1987 una ricerca archeologica e, partendo dai soli dati conosciuti che sono la lunghezza e la larghezza dello scafo desunte dagli scali in muratura dell’antico arsenale di Atene e le epigrafi degli inventari navali, ha promosso la costruzione di un modello in grandezza naturale che è riuscito a navigare a remi. Un successo, ma anche una delusione in quanto il numero dei vogatori, 170 su tre file essendo la triera lunga 37 metri con un dislocamento di 55 tonnellate, era tanto elevato da occupare pur ammassati al massimo tutto lo spazio interno dello scafo, cosa evidentemente non accettabile nella triera storica originale, che disponeva anche di vele.

In fatto di triremi romane rimane comunque il punto interrogativo mancando ogni riferimento sicuro, forse unità uscite da cantieri greci – cosa possibile - non potendosi prendere in considerazione quelle ricostruzioni immaginate da pittori ed incisori rinascimentali col solo afflato artistico ad illustrazione della battaglia navale di Azio (31 a.C.) tra Ottaviano da una parte e Antonio con Cleopatra dall’altra.

Battaglia navale

Convoglio di navi mercantili nella tempesta


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